22 aprile 2007

Manituana di Wu Ming

Nell'america di fine 700, si vive la battaglia tra lealisti (al re Giorgio d'Inghilterra) contro ribelli; una lotta per la conquista della libertà da parte dei coloni americani sfruttati dalla madrepatria, la corona inglese.

Una battaglia nella quale entrambi le parti si contendono l'alleanza delle tribù indiane Irochesi, riunite in una confederazione, chiamata della Lunga Casa.

Ma questa storia di battaglie, lutti, morti e carestie viene raccontata dalla parte degli indiani fedeli al re inglese. Indiani della tribù dei Mohawk: come il commissario per gli affari indiani Guy Johnson, figlio di Sir William primo commissario inglese; come il suo interprete Joseph Brant; come l'indiano-francese Philip Lacroix, chiamato “Grande Diavolo” durante la guerra franco inglese, nella quale gli indiani della confederazione guidati da William Johnson, sconfissero i francesi.

È una storia dalla parte sbagliata della storia, se è vero che la storia la scrivono i vincitori.

Dietro questo libro si vede un gran lavoro di preparazione, fatto per ricostruire un america dove coloni europei e indiani vivevano a fianco, incrociati anche in matrimoni misti. Una comunità di indiani, irlandesi e scozzesi, che il suo fondatore, sir William aveva chiamato “Irochirlanda”.

Convivenza che avviene non senza qualche attrito, per il possesso delle terre dei nativi americani che fanno gola ai coloni. Il possesso è sancito dagli accordi del re inglese dopo la guerra ma il clima di ribellione che cova nelle comunità mina tutti gli equilibri. Dove anche il rum può servire ad ingannare qualche capo indiano a firmare, con l'inganno, la cessione delle terre di un'intera tribù.

Non è ancora l'epopea del west, del mito della frontiera. Ma tutti i germogli che porteranno, nel secolo successivo, alla nuova america, sono in essere: il desiderio di nuove terre; la libertà dal giogo inglese che blocca il commercio dei coloni; la loro ribellione alle tasse imposte. Ma soprattuto si delinea all'orizzonte lo sterminio degli indiani.

La parte più interessante è l'intermezzo inglese del libro: quando una delegazione di indiani si presente a Londra al re, per esporre la loro fedeltà.
Una Londra dei grandi contrasti, dove lo sfarzo della corte fa a pugni con la feroce miseria dei quartieri periferici. Quartieri dove dominano bande criminali che ricordano i soma del film “Arancia meccanica”, col loro slang “bastardo” e la loro gratuita crudeltà.

La grande capitale, che più che la testa di un corpo, viene descritta come un enorme deretano che espello tutto quanto (ricchezze, beni) vi arriva, non capisce i problemi dei coloni.
Non capisce, o non vuole capire, che la guerra commerciale verrà persa.
Con la guerra verrà spazzato via anche quel mondo, l'Irochirlanda, degli indiani che hanno fatto la scelta (sbagliata a posteriori) di essere i fedeli sostenitori di un mondo che ha fatto il suo tempo. Viene spazzata via la loro cultura, di un mondo evoluto, tollerante, meticcio, dove la cultura indiana di Manituana, Manitù, del Grande Spirito vive accanto ai libri di Voltaire.

Un libro che rimane a metà, sospeso. La prima sensazione che si ha, al termine della lettura, è una delusione: non mi convince lo stile in cui è stato scritto, da romanzo giallo (periodi brevi e asciutti), che contrasta molto col ritmo lento dell'azione. Molti i personaggi di cui non è chiaro il ruolo all'interno del racconto, come la gang di finti indiani (i Mohock) nella parentesi londinese.

Pagine di azione si alternano a quelle dedicate alle visioni di Molly Brant, la capostipite della comunità che vive sul fiume di Mohawk. E, di conseguenza, lo stile cambia, passando da quello descrittivo dove si racconta della guerra, del fratello contro fratello, della distruzione sistematica dei villaggi (come dalle disposizioni del generale Washington); nelle visioni il linguaggio si distende e diventa visionario, enigmatico, dove una parola sottintende più significati. D'altronde è la stessa differenza che esiste tra il linguaggio inglese, dove un termine significa quella cosa e il linguaggio irochese “la lingua Mohawk era piena di dettagli, attraversata da dubbi, rifinita da continui aggiustamenti. Ciascuna parola si prolungava e allungava per catturare ogni possibile senso e tintinnare nelle orecchie nel modo più consono.”

Un libro che si mantiene a metà tra il romanzo storico, e romanzo epico di guerra e battaglie. Difficile coglierne ad una prima lettura, tutto il senso e a coglierne tutti i contenuti, essendo stratificato a più livelli. Forse c'è dentro di più di quello che si riesce a leggere.
Un consiglio: non leggetelo di fretta, come ho fatto io. Cercate di leggerlo più con gli occhi dell'immaginazione che con gli occhi della lettura.

Il sito della Wu Ming foundation; la presentazione su Wuz; il sito dedicato al libro e il link per ordinare il libro su internetbookshop.

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2 commenti:

Anonimo ha detto...

http://radiohacktive.org/index.php?option=com_remository&Itemid=0&func=selectfolder&cat=86&page=1
qui c'è la presentazione del romanzo tenutasi alla Biblioteca Vigentina a Milano, giovedì 19 aprile. C'è anche un passaggio in cui si parla dei Mohok londinesi, forse aiuta a capire il loro ruolo nel romanzo

ciao

Anonimo ha detto...

Intanto complimenti per il tuo blog. A me questo libro del collettivo Wu Ming è piaciuto molto. Credo che abbia una forte valenza politica, quasi un inno ad un mondo "meticcio", multiculturale. Nella cornice di un romanzo a metà fra lo storico (si sono documentati da pazzi gli autori e si vede) e l'avventura, credo che questo sia il messaggio più forte del libro del collettivo Wu Ming. E poi anche l'idea di costruire insieme ai lettori una sorta di romanzo ulteriore o parallelo - come avviene nel sito dedicato all'opera - mi intriga non poco.