06 dicembre 2009

Il giudice meschino di Mimmo Gangemi

Il riscatto del giudice Lenzi, il giudice meschino che da il titolo a questo bel noir dell'ingegner Gangemi, ambientato in Calabria.
Un romanzo che parla di traffico di rifiuti (e di navi a perdere), della ndrangheta usata dalla politica, come malavalanza per coprire i suoi traffici. Anzi, non della ndrangheta, ma delle ndranghete, perchè, come emerge dal libro, esiste ndrangheta e ndrangheta. C'è quella che parla e tratta con la borghesia della società e, salendo di livello in livello, con la politica, con la massoneria. E c'è ne anche una più restia alle nuove alleanze politiche, che nel libro è rappresentata dal vecchio boss don Mico Rota, che comandava vita e morte da dentro il carcere.

Il giudice meschino si chiama Roberto Lenzi, "scioperato e donnaiolo", che dopo la morte dell'amico e magistrato Maremmi, ucciso sulla soglia del portone di casa, decide di trovarne i colpevoli anche a rischio della propria vita.

Chi l'ha ucciso? La ndrangheta, la risposta più semplice, la risposta più ovvia. Anche perché aveva subito le minacce da un piccolo boss; perché il fratello di questi viene trovato ucciso sotto le ruote di un frantoio, in una scena del crimine ricca di simboli propri della cultura “ndranghestista”.
La pala del fico d'india, la mano mozzata.
Troppi simboli.

Altra è la strada che porta ai colpevoli: ad imbeccare il giudice meschino diventa proprio il vecchio boss che con lui instaurerà un rapporto di scambio. Da una parte permettere la vendetta dell'amico, dall'altra per il boss, punire chi, nella locale dove lui comanda, si è permesso di decidere quell'omicidio, si è permesso di sversare sul suo territorio dei rifiuti tossici provenienti dal nord.

Altre morti, che una mano feroce compie per cancellare tutte le tracce, sul traffico di rifiuti, che portano su su, dalle cosche della regione, fino a imprenditori, fino personaggi col grembiule con alte protezioni a Roma.

E il giudice meschino, l'antieroe donnaiolo, separato con un figlio con cui cerca di recuperare un rapporto di padre, col vizio di corteggiare tutte le belle donne che si parano davanti, saprà riscattarsi.
Ma sarà un finale amaro: se la storia è ricca di spunti con la cronaca giudiziaria di oggi, anche il finale ricorda tante storie già lette.
Lo scandalo che monta sui giornali, i nomi dei potenti che compaiono negli articoli, e poi la bolla che si sgonfia.

Un buon romanzo, che alterna le voci di fuori, dei protagonisti, con le voci di dentro, con i pensieri intimi dei personaggi minori. Il terzo protagonista del libro: criminalità, Stato, popolo
Un bell'affresco della società e della borghesia meridionale, della mentalità che domina: come nelle pagine in cui i membri del circolo commenta i fatti del paese. Una carrellata di personaggi alla Camilleri: il notaio, il farmacista, il medico, il marchese decaduto, il commendatore ..
Il libro permette tanti spunti: a cominciare dalla domanda sulla presenza della ndrangheta. Una presenza accettata da tutti, di cui si discute comunemente per le strade, in famiglia nei circoli. Una presenza accettata, come ammette l'amico del giudice Lenzi, Lucio, da parte di chi dispone di ricchezze, beni e terreni.
La presenza dello stato: è un concetto ripetuto più volte. Dello stato si prova diffidenza: diffidenza quando si deve parlare col giudice, per testimoniare su cose viste che si sarebbe preferito non vedere. Troppo radicata è la convinzione dell'apparentamento di apparati dello Stato (che li dovrebbe difendere) con la criminalità organizzata.
Lo stesso che avviene, in un certo senso, con l'ambiguo rapporto tra capobastone e giudice, in quei colloqui nel carcere in cui il boss “dice e non dice” ricorrendo a metafore per non passare da delatore.

In attesa che al riscatto del giudice meschino segua anche il risveglio delle coscienze, rimane la domanda
Chi comanda sul territorio: chi è il vero criminale?
Fanno tante chiacchiere. Ma non arrestano nessuno. Qualche giorno e finisce anche lo scorno, - fece l'avvocato.
A Roma, sì, i mastri di seta. Là sono più malandrini di questa carne, - rispose don Mico, battendosi sul petto come per il Mea Culpa e roteando in aria il bastone.

La recensione di Giancarlo De Cataldo sul corriere.
Technorati:
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