31 marzo 2011

Corpi di scarto di Elisabetta Bucciarelli

Gli scarti in una discarica nella periferia di una città del nord (che non ha nome, perchè non ha più un'identità e un'anima), gli scarti gettati dalle persone, rifiutati e buttati via (perchè vecchi, perchè non riciclabili, perchè inutili).
Ma anche gli scarti umani, rifiutati dai genitori e scartati anche dalla società degli "uomini di buona volontà": come Iac e Lira, due adolescenti che passano le proprie giornate dentro la "zona viva" di questa discarica nel loro rifugio anzichè vivere nella loro casa o frequentare la scuola.
- Per me non è stato così facile rendermi conto di quello che sono - rispose Iac.
- E cosa saresti? Guardandolo in faccia.
- Quello che sei anche tu, Argo. Il rifiuto di qualcuno che non ti ha voluto con sè.
[pagina 192]


Le tante facce della società in cui viviamo, accomunate dalla stessa concezione di scarti e rifiuti, sono raccontate in questo racconto, quasi surreale, perchè ambientato in un luogo inusuale.
Dal chirurgo plastico Alfredo Mito (di nome e di fatto) che corregge i difetti delle persone, alla figlia Silvia, amica di Iac, insoddisfatta del proprio corpo.
Gli abitanti della "zona viva" della discarica: Saddam, immigrato turco che vive riciclando gli oggetti ritrovati in discarica, con l'aiuto di Argo (Zimba), scappato dalla famiglia cui era affidato.
Iac e il fratellino Tommy che una famiglia più o meno l'avrebbero, ma preferiscono il rifugio dentro la zona rifiuti.
Lira (Funesta), il loro amico, in affidamento alle zie.

Tutte persone la cui vita scorre secondo l'apparentemente normalità, sia dentro i miasmi e i fanghi della putrida, sia dentro l'ospedale dove il chirurgo soddisfa l'ego dei suoi pazienti togliendone i loro difetti.
Gesti fatti inconsapevolmente: come gettare nell'indefferenziata gli scarti delle operazioni o le lastre o immergere le mani dentro fanghi nocivi. O anche gettare rifiuti tossici dentro il compost senza nessun trattamento, chiudere un occhio sul contenuto di una camion di rifiuti. Bruciare una pira di sacchi, senza preoccuparsi di cosa possano sprigionare nell'aria.
Fino a che questi non portano al drammatico finale.

Si fanno gesti. Si dicono parole. Questione di momenti in cui il prima e il dopo non coincidono più. Come dopo un'atomica, come dopo aver inserito nelle vene un ago, aver messo le mani nella putrida, aver raccolto mascherine di un chirurgo distratto, aver svitato il coperchio di quel barattolo di poltiglia che usava Iac per disegnare stelline nel buio e averci infilato le manine dentro, aver preso la poltiglia a averla sparsa dappertutto, essersi sfregato gli occhi e poi aver lacrimato sulle guance e aver strofinato più e più volte nella speranza di togliere tutto e solo alla fine, fosforescente come una stella nel cielo, essersi accorto che bruciava la pelle e non smetteva più.
Fosforo raschiato da una lastra fotografica, Iac lo aveva fatto per giorni, se ne trovavano talvolta nella zona dei sacchi bianchi. Non sempre, erano rare. Miste alle cannule e alle protesi. Avevo messo insieme con cura quella poca materia di stelle, nel barattolo di vetro, custodita sull'ultimo ripiano.
Una magia da poco con cui il ragazzo apriva i sogni di Tommi e di Silvia.
In mezzo, tra il prima e il dopo, un gesto banale, e un altro ancora, in una catena di mancanze, dimenticanze, assenze. Banale come il male.
[pagina 203-204]
L'intervista dell'autrice sul sito di Verdenero

Corpi di scarto. Perché questo titolo?

Come dico sempre la scrittura dovrebbe passare dal corpo prima di trasformarsi in pagina da leggere, soprattutto oggi, perché mai come in questo momento l’abuso del corpo rivela l’esatto contrario, la sua assenza. Viaggiare in superficie, accontentarsi dell’immagine e della banalità, puntare al corpo apparentemente sano e perfetto pare l’unica via perseguibile. In Corpi di scarto ho cercato di ribaltare il punto di vista. Invece di inseguire un’estetica consunta e consueta mi sono chiesta se fosse possibile azzardare una filosofia dell’impuro, dell’imperfetto. Del rifiuto. Il corpo come residuo in una Città come sistema di rovine. Ma nonostante questo il persistere o rinascere di una nuova forma di bellezza, costruita con elementi apparentemente dissonanti (forse davvero brutti), ma emotivamente limpida, tenera, silenziosa fatta di piccoli gesti.

I personaggi di questa storia, che ruota intorno alle vicende di Iac, sono degli scarti umani. Come nasce l’idea di mettere in parallelo una discarica di oggetti con una discarica di esseri viventi?

Nella nostra vita quotidiana cerchiamo di allontanare da noi (in tutti i modi) ciò che ci disgusta. Persone o cose, poco importa. Laviamo continuamente le mani per paura del contagio. Eliminiamo, sfrondiamo, scartiamo. Cerchiamo ambienti asettici. Compriamo prodotti sigillati, con plastiche, polistirolo, cartoni. Imballi che preservino l’interno incontaminato. Puliamo, laviamo, non stringiamo più le mani e nemmeno ci scambiamo volentieri altri gesti d’affetto. L’assenza di contatto sembra essere la nostra salvezza. Mentre facciamo questo aggiustiamo i nasi, tingiamo i capelli, spianiamo le rughe, liposucchiamo gli eccessi adiposi. Tutto questo ha profondamente a che fare con la nostra scarsa o nulla accettazione di quello che siamo davvero. Esseri imperfetti, con le loro parti di scarto. Scartati spesso dalla società, dalla famiglia, da un fidanzato/a, dal lavoro. Ma anche scartanti a nostra volta, nei confronti di chi non appartiene al nostro modo di vivere e pensare e ci provoca disturbo, visivo e psicologico. Ecco perché ho voluto mettere a confronto tutti i possibili “scarti”. Quanto più riesci a sostenere lo sguardo e la vicinanza di ciò che ti provoca repulsione, tanto meglio riuscirai a comprendere parti importanti di te e soprattutto, (forse questa è davvero la speranza) proporre alternative valide a un modus operandi che sta mettendo in pericolo (vero) le nostre vite.

Iac conosce la discarica fin nei minimi dettagli, per lui è una risorsa, un luogo dove trovare tutto quello che gli serve per sopravvivere e sognare. Si tratta di una metafora importante della nostra civiltà opulenta e sprecona, che getta una quantità enorme di oggetti considerati di scarto, ma che per qualcuno possono rivelarsi molto utili.

Ci vorrebbe un vento di sobrietà. Riportare al centro il concetto di bisogno primario e poi mettere a fuoco bene, di nuovo, quali siano le necessità indotte. Parlo di necessità, anche quando l’intendimento sarebbe di fare riferimento al superfluo e all’inutile, perché ciò che viene percepito come necessario è davvero soggettivo e ne ho rispetto, comunque. Ma nel momento in cui siamo chiamati a decidere su problemi così importanti: etica, nucleare, salute, per citarne solo alcuni, non possiamo non mettere in gioco la nostra capacità di autolimitarci. Penso che fare la nostra parte bene sia più facile di quanto si possa immaginare. Sono gesti piccoli, fatti ogni giorno, che concorrono a un disegno più grande. Spesso offrirebbero anche posti di lavoro in più, paradossalmente consumando meno.

Scrivi: “Siamo ognuno lo scarto parziale o totale di qualcuno”. In una storia in cui affronti l’idea di rifiuto a 360 gradi, credi che per il lettore ci sia spazio ancora per sperare-sognare?

Il nostro mondo è una grande discarica a cielo aperto. Di oggetti e di persone. Non camminiamo tra l’immondizia (tranne eccezioni) ma la respiriamo continuamente a pieni polmoni. Non vediamo le scorie infossate nel Terzo mondo ma l’energia radioattiva invisibile o la diossina di Seveso faranno e stanno ancora facendo danni. Il lettore come ogni cittadino ha dalla sua “lo scarto”. Non quello di cui ho parlato prima, ma il suo scarto personale. La sua differenza potente dagli altri. Il suo punto di forza, la sua identità. Se ha voglia di lasciare davvero un segno del suo passaggio deve far leva su questo. Non imprimere la sua grande impronta (o almeno lasciarla lieve) è il miglior gesto per farsi ricordare. Il sogno si alimenta di un presente leggero. Come vedi “scarto” è una parola che si presta a una doppia lettura.

Come in ogni VerdeNero, in Corpi di scarto possiamo leggere la postfazione che ci riporta ai dati reali. A quale realtà ti sei ispirata per scrivere questo romanzo?

Racconti degli amici Vigili del Fuoco. Magazzini dismessi alle porte di Milano che invece nascondevano vere discariche. Rifiuti tossici che sparivano di notte su camion non ben identificati. Oppure inchieste di amici giornalisti, rifiuti sanitari pericolosi e a rischio infettivo bruciati nei forni degli inceneritori. Controlli pilotati nelle discariche. Notizie comparse sui giornali per lo spazio di un giorno e poi nascoste. Ospedali del Triveneto con giardini annessi da cui sbucavano cannule e materiale sanitario da smaltimento speciale. Infine racconti di rifiuti tossici pericolosi buttati con noncuranza nei cassonetti. Cose piccole, fatte da uomini piccoli, che però provocano rischi altissimi per tutti. E come dice uno dei personaggi “se il dolo è la Cosa, la colpa è di tutti”.

Il blog di Elisabetta Bucciarelli.
Il link per ordinare il libro su ibs.

La scheda sul blog di Verdenero.
Il commento al libro, il perchè di questa storia, dell'autrice.
Technorati: Elisabetta Bucciarelli

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