04 luglio 2012

Il rapporto mafia-politica

Mi sono riletto la relazione di minoranza della commissione antimafia, del 1976: quella, per intenderci, che portava la firma di Pio La Torre e Cesare Terranova. Il segretario regionale del PCI e il giudice istruttore uccisi da Cosa Nostra nella stagione eversiva (così la definiva lo stesso La Torre) 1978-1982.
C'era già scritto tutto: il rapporto di Cosa nostra con la politica, che la politica stessa non voleva vedere (e infatti la relazione di maggioranza di questo aspetto non parla.
Si parla della mafia, dei primi contatti col regno sabaudo e con le classi dirigenti dell'isola.
Di come entrambi avessero bisogno l'uno dell'altro: la mafia che grazie al rapporto con la classe dirigente acquista potere e consenso. Il mondo politico che, grazie all'appoggio dei mafiosi, prende voti e consenso.

Questo rapporto uscì nel 1976: ancora oggi, parlare di mafia e politica, di trattativa, di collusioni, rimane tabù.
Un mistero: come la morte del "bandito" Giuliano. Che rimane mistero perchè non si vuole vedere la realtà per quella che è.

I magistrati che indagano sulla mafia (non quella rurale o quella militare), sui suoi rapporti con massoneria, finanza, politica vengono lasciati soli: succedeva con Falcone e Borsellino,
succede ancora oggi con Ingroia.

Di seguito alcuni stralci della relazione (l'intero pdf lo potete scaricare qui).


RELAZIONE DI MINORANZA dei deputati LA TORRE, BENEDETTI, MALAGUGINI e dei
senatori ADAMOLI, CHIAROMONTE, LUGNANO, MAFFIOLETTI
nonché del deputato TERRANOVA

La relazione di maggioranza (o del Presidente) della Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno dalla mafia in Sicilia — che chiude più di undici anni di attività — non può ritenersi in alcun modo soddisfacente, delude le attese dell'opinione pubblica, non rafforza il prestigio delle istituzioni democratiche.
Ciò accade perché, sin dall'inizio, non si è voluta fare una scelta politica netta a proposito della genesi e delle caratteristiche del fenomeno mafioso.
Pur affermando che « la Commissione si è proposta di ripensare in una prospettiva politica le conclusioni a cui è pervenuta la storiografia sulla 'mafia » e che il dato caratteristico peculiare che distingue la mafia dalle .altre forme di delinquenza organizzata è « la ricerca del collegamento con il potere politico », si oscilla, nel seguito, fra la tesi sociologica della mafia come « potere informale » che occupa il « vuoto di potere » lasciato dallo Stato, e la realtà storica della compenetrazione fra il sistema di potere mafioso e l'apparato dello Stato. Si sfugge cioè al nodo centrale della questione: che tale compenetrazione è avvenuta storicamente come risultato di un incontro che è stato ricercato e voluto da tutte e due le parti (mafia e potere politico).
[..]
La mafia è quindi un fenomeno di classi dirigenti. Come tale, pertanto, la mafia non è costituita solo da « soprastanti », « campieri » e « gabellotti », ma anche da altri componenti delle classi che esercitano- il dominio economico e politico nell'Isola, cioè da appartenenti alla grande proprietà terriera e alla vecchia nobiltà. Finora si è cercato di presentare il proprietario terriero più come vittima che come beneficiario della mafia; tutt'al ipiù si è riconosciuto che il vantaggio da lui ricevuto sia stato quello di avere nella mafia una guardia armata del feudo.
[..]
La mafia, d'altro canto, ricerca un consenso di massa per meglio raggiungere i suoi obiettivi. La mafia fa leva sull'odio popolare contro lo « Stato carabiniere », contro un potere statale estraneo, antidemocratico ed ingiusto, che nulla offre al popolo e sa solo opprimerlo. La mafia compie così una grande mistificazione, utilizzando il malcontento popolare, iper fini contrari agli interessi reali del popolo siciliano : essa ha 'bisogno dell'omertà, per assicurarsi l'impunità nei suoi delitti, e cerca, anzi, ila solidarietà dei siciliani. Viene così qualificato « sbirro » chi riconosce l'autorità dello Stato, che è per sua natura nemico della Sicilia: il siciliano non deve riconoscere lo Stato di polizia, anzi si sostiene che da questo Stato, che l'opprime, si deve difendere. In tal modo la mafia riesce a dominare il popolo siciliano ed a giustificare il 'suo potere extralegale. Ecco la radice dell'omertà, a cui certo si aggiunge, pai, la paura, il terrore della rappresaglia,che la mafia organizza contro chi si ribella alla legge della omertà. Ma questo gioco della mafia ha successo perché lo Stato non sa offrire al popolo siciliano null'altro che la repressione e egli stati d'assedio: nel 1860 con Bixio, nel 1863 col generale Covone, nel 1871 col prefetto Malusardi, che menò vanto di aver debellato la mafia, ricevendone onori e precedendo in ciò il prefetto Mori; e, infine, con la repressione del movimento dei fasci, nel 1893-94, sino al fascismo. Ecco la ragione dèi fallimento storico della lotta alla mafia.

L'eccidio di Portella della Ginestra e la morte di Salvatore Giuliano
Si venificò, in questa circostanza, un fatto enorme. Il Governo si servì della mafia per eliminare il bandito. Giuliano doveva essere preso morto perché non potesse parlare. Si creò, così, la messinscena della sparatoria nel cortile De Maria a Castelvetrano. Il Ministro dell'interno dell'epoca emanò un bollettino con cui si accreditava la falsa versione della morte di Giuliano e si promuovevano sul campo tutti i protagonisti dell'impresa. Il colonnello dei Carabinieri Ugo Luca venne promosso generale. Il prefetto Vicari fu promosso prefetto di prima classe e da li spiccò il volo sino a diventare Capo della polizia.
Ma bisognava anche impedire che la Magistratura aprisse una qualche inchiesta sui faitti e allora si pensò di « tacitare » il Procuratore generale di Palermo, Pili, che era alla vigilia di andare in pensione. Il Presidente della Regione (che era allora l'onorevole Franco Restivo!) si incaricò di offrire a Pili un importante incarico: al momento di entrare in quiescenza lo nominò consulente igiuridico della Regione siciliana. E così il cerchio si chiuse.

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