23 maggio 2015

23 anni dopo, le loro idee continuano a vivere

Sono giunto ad una convinzione: buona parte delle persone che oggi hanno celebrato l'anniversario della strage di Capaci (dove morirono il giudice Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della sua scorta), nemmeno hanno capito bene cosa ci fosse da festeggiare. È diventato tutto un rito: il 23 maggio, Capaci, gli hashtag #falconeeborsellino, la lotta alla mafia, la guardia che non si può abbassare, lo sforzo per la ricerca della verità.
Ma chi erano i magistrati del pool antimafia? Chi erano Falcone, Borsellino, Di Lello, Guarnotta e Chinnici e Caponnetto? Perché è stato così importante il loro lavoro? Perché la mafia li uccise?
Tante domande a cui in genere nessuno trova l'esigenza e il dovere di rispondere. Perché sono domande scomode che costringerebbero il giornalista, il politico, l'esperto di mafia (di solito esperto da salotto) a fare i conti con la mafia e con lo Stato.
Meglio trincerarsi dietro le verità di comodo che, a furia di essere ripetute, diventano l'unica verità.
Ovvero Falcone e Borsellino che lavoravano e basta, senza fare dichiarazioni o rilasciare interviste, senza cercare le luci della ribalta.
Ovvero Falcone e Borsellino che non si immischiavano con la politica.
Mica come quelli oggi, ammalati di protagonismo, che lanciano teoremi, che pretendono di condizionare la politica e l'economia.

Basterebbe leggersi qualche libro che parla di quello che sono stati i due giudici, il pool e il tribunale di Palermo. Cominciamo col dire che pochi magistrati come loro sono stati attaccati e denigrati da vivi. Per essere poi deificati quasi, ma da morti.
Falcone bocciato al posto di capo ufficio istruzione da un Giuda, come disse l'amico Borsellino. Falcone bocciato al CSM, al posto di procuratore capo. Falcone costretto a scappare da Palermo ed accettare un posto al ministero della giustizia, pur di lavorare, pur di poter continuare ad essere al servizio per il paese.
Borsellino e Falcone parteciparono a convegni organizzati dai partiti, rilasciavano pure interviste anche molto dure nei confronti della politica. Borsellino contro lo smantellamento del pool fu chiamato a rispondere di fronte al CSM. Falcone era presente alla puntata di Samarcanda dove un giovane Cuffaro attaccava i magistrati che screditavano la Democrazia cristiana. Vi ricorda qualcuno, oggi?

Falcone fu attaccato da amici o presunti amici quando decise di andare a Roma e abbandonare la toga.
Borsellino fu attaccato ingiustamente in un articolo dallo scrittore Leonardo Sciascia, perché promosso come procuratore capo, perché un “professionista dell'antimafia”, uno cioè che faceva carriera grazie alla mafia. Con Sciascia ci fu modo di spiegarsi. Ma quanti usarono poi quell'articolo in modo strumentale?

Fu il pool di Palermo ad inventarsi la formula del concorso esterno in mafia: se ne dimenticano oggi quanti criticano questa formula, che colpisce la mafia in uno dei suoi gangli vitali.
Il rapporto con la politica.
Ancora oggi la politica si difenda dalle accuse di complicità con la mafia. Almeno Confindustria in Sicilia espelle chi paga il pizzo: ma la politica ancora deve farlo questo passo. Tenere fuori gli impresentabili, i collusi, quelli a disposizione, quelli che prendono i voti dalle famiglie promettendo qualcosa.

E tutto questo nulla a che vedere con le condanne: pensate in Sicilia a quel senatore che è stato ripreso a braccetto col boss. Fedina penale pulita. Eppure proprio a politici come lui si rivolgeva Borsellino quando spiegava ai ragazzi a Bassano del Grappa:
Vi è stata una delega totale e inammissibile nei confronti della magistratura e delle forze dell'ordine a occuparsi esse solo del problema della mafia [...]. E c'è un equivoco di fondo: si dice che quel politico era vicino alla mafia, che quel politico era stato accusato di avere interessi convergenti con la mafia, però la magistratura, non potendone accertare le prove, non l'ha condannato, ergo quell'uomo è onesto… e no! [...] Questo discorso non va, perché la magistratura può fare solo un accertamento giudiziale. Può dire, be' ci sono sospetti, sospetti anche gravi, ma io non ho le prove e la certezza giuridica per dire che quest'uomo è un mafioso. Però i consigli comunali, regionali e provinciali avrebbero dovuto trarre le dovute conseguenze da certe vicinanze sospette tra politici e mafiosi, considerando il politico tal dei tali inaffidabile nella gestione della cosa pubblica. Ci si è nascosti dietro lo schema della sentenza, cioè quest'uomo non è mai stato condannato, quindi non è un mafioso, quindi è un uomo onesto! (citato in Lirio Abbate, Peter Gomez, I complici. Tutti gli uomini di Bernardo Provenzano da Corleone al Parlamento, pp. 6-7)

Oggi gli stessi che lo ricordano, da dentro le istituzioni, sono gli stessi che poi si danno le pacche sulle spalle plaudendo alle riforme messe in atto: come Berlusconi che negli anni passati si autocomplimentava per aver stabilizzato il 41 bis (dopo averlo svuotato dall'interno), oggi questo pastone frutto delle larghe intese si auto celebra per la legge anticorruzione e per la legge sul voto di scambio.
Anche a loro va l'invito a leggersi cosa scrivevano e dicevano di mafia e politica nelle interviste, nei loro atti giudiziari: il 416 ter è stato sì reso più chiaro, ma di fatto è stato depotenziato.
E sulla legge contro la corruzione, è un passo in avanti, ma tardivo. Contrasta i mafiosi aumentando le loro pene, ma non colpisce a sufficienza i reati dentro la pubblica amministrazione.
E potremmo anche parlare della responsabilità civile dei magistrati, dell'atteggiamento di questa classe politica nei confronti dell'inchiesta di Palermo sulla trattativa. Sul fatto che una persona come Berlusconi sia ancora al centro della politica. Sulla difficoltà da parte dei partiti nel fare pulizia al loro interno.

Coraggio, anche quest'anno vi è toccato ricordare Capaci Falcone e tutti gli altri. E domani? E dopo domani?
La mafia (o meglio le mafie), sono organizzazioni che si insinuano nei punti deboli dello stato: laddove lo stato è assente, è debole, troviamo loro.
Nel controllo del territorio, nella richiesta del pizzo, nella riscossione dei crediti, per la gestione dei rifiuti, per la raccolta dei voti. Per la richiesta di un posto di lavoro.
Mafia e politica, mafia e imprenditoria, si cercano, si trovano, per una convergenza di interessi.
Sono collusi, come spiega il procuratore Nino di Matteo nel suo libro.
Capire le ragioni di questa convergenza significa mettere fine alle ragioni stesse della (o delle) mafie.
C'è una questione di fondo da capire: una certa politica e la mafia vogliono lo stesso tipo di magistrato. Quello solerte col potente e forcaiolo col piccolo delinquente. Il giudice burocrate, che non prende iniziative. Che si limita al compitino.
E né Falcone, né Borsellino, né altri magistrati in prima linea contro la mafia erano così.
E per questo sono stati uccisi.
Ma le loro idee continuano a vivere, camminano su altre gambe, grazie a quei giovani che ricordano. E che sono la speranza per un futuro senza mafia.

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