03 settembre 2015

Quella convergenza di interessi tra stato e anti stato

Il drappo apparso su una via a Palermo, dopo l'omicidio del generale e della moglie
Martedì scorso Rai Storia ha trasmesso un documentario sulla vita del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa (ucciso dalla mafia il 3 ottobre 1982): attraverso i ricordi personali, figli e le persone con cui ha lavorato, raccontavano alla nipote Dora chi era stato suo nonno.
Così ho avuto modo di scoprire come l'allora colonnello Dalla Chiesa, tornato a Palermo a fine anni 60, avesse già chiara la trasformazione in atto all'interno della mafia.
Si era alla fine della prima guerra di mafia, dove la faida tra le famiglie era scoppiata per gli appalti nell'edilizia pubblica.

Dalla Chiesa e i suoi collaboratori avevamo completato una mappatura di chi comandava a Palermo e in Sicilia.
Quali fossero i rapporto, gli interessi e i legami con la politica: di tutto questo parlò di fronte alla Commissione parlamentare Antimafia.
Nando Dalla Chiesa racconta di come, agli atti della commissione, i nomi di quei politici siano assenti. Ciancimino, Gioia, Lima. La destra DC, che pescava voti in Sicilia, in nome della famiglia, dei valori, dello scudo crociato.

Tutto questo ci dovrebbe far capire quanto sia stato difficile, in quella Sicilia e quell'Italia, portare avanti la lotta alla mafia e ripristinare il ruolo dello Stato. Uno Stato dove ancora la mafia non esisteva e dove i nomi dei politici collusi non si potevano mettere nero su bianco su atti parlamentari.
Tabù.
I tempi non erano pronti. 

Ci vollero altre morti, la seconda guerra di mafia (il golpe dei corleonesi), il pool di Chinnici e Caponnetto poi, per riaprire una stagione di vera antimafia. Di verà legalità e giustizia, dunque di libertà.
Dalla Chiesa fu mandato a Palermo, dopo gli anni a capo del nucleo antiterrorismo: era il 1982, c'erano appena stati i mille morti e più tra Palermo e provincia. La mafia (e non solo la mafia) aveva ucciso presidenti di regione, giudici, segretari di partito. Pio La Torre era stato ammazzato a fine aprile: lui che aveva denunciato il veleno della connivenza nel partito e che, sui cadaveri eccellenti di politici e giudici aveva usato l'espressione di "tribunale internazionale" che aveva decretato la pena di morte (Mattarella, Costa, Terranova,Reina..).

Come alibi, forse, per lavarsi la coscienza, il governo nominò il generale prefetto di Palermo. Promettendogli quei "superpoteri" che non arrivarono mai. Poteri che, dopo la sua morte, furono concessi all'alto commissario per la lotta alla mafia, Sica.
Come per altri delitti, il sospetto che non fu solo la mafia, rimane.
Era a Palermo da 100 giorni, non aveva poteri reali, non poteva coordinare indagini, non aveva dato ancora fastidio alla mafia.
Nel suo libro di memoria, il generale dei carabinieri Angiolo Pellegrini scrive:
“nei palazzi siciliani del potere erano tutti sicuri che il generale, alla fine, non avrebbe mai ottenuto quegli incarichi speciali dal governo centrale. «È un personaggio troppo ingombrante,..”

Dopo quel delitto il Parlamento fu costretto ad approvare la legge Rognoni La Torre (col sequestro dei beni e con il 416 bis): ci volle altri cadaverei in via Carini per poter dire finalmente, la mafia esiste.
"Il generale era ingombrante per qualcuno nello stato", confidò Badalamenti a Buscetta.
I killer erano mafiosi, sicuramente, ma i mandanti no: fu ucciso per quella convergenza di interessi tra stato e anti stato, che pretendeva di mantenere immutata la Sicilia e il sud, coi suoi privilegi, con le sue ingiustizie, con le carenze dello Stato.
Il grande gioco del potere, per usare le parole di Giovanni Falcone.

L'ultima intervista a Giorgio Bocca:
Voglio dire, generale: questa lotta alla Mafia l'hanno persa tutti, da secoli, i Borboni come i Savoia, la dittatura fascista come le democrazie pre e post fasciste, Garibaldi e Petrosino, il prefetto Mori e il bandito Giuliano, l'ala socialista dell'Evis indipendente e la sinistra sindacale dei Rizzotto e dei Carnevale, la Commissione parlamentare di inchiesta e Danilo Dolci. Ma lei Carlo Alberto Dalla Chiesa si mette il doppio petto blu prefettizio e ci vuole riprovare."Ma si, e con un certo ottimismo, sempre che venga al più presto definito il carattere della specifica investitura con la quale mi hanno fatto partire. Io, badi, non dico di vincere, di debellare, ma di contenere. Mi fido della mia professionalità, sono convinto che con un abile, paziente lavoro psicologico si può sottrarre alla Mafia il suo potere. Ho capito una cosa, molto semplice ma forse decisiva: gran parte delle protezioni mafiose, dei privilegi mafiosi certamente pagati dai cittadini non sono altro che i loro elementari diritti. Assicuriamoglieli, togliamo questo potere alla Mafia, facciamo dei suoi dipendenti i nostri alleati".
Altre letture:
- Complici – caso Moro di Stefania Limiti Sandro Provvisionato
- Noi, gli uomini di Falcone - Angiolo Pellegrini

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