03 agosto 2016

Morte dell'inquisitore, di Leonardo Sciascia

Pensa beni a la morti.
Al mondo non c'è niente rimedio.
Averti chi ccà dunanu tratti di corda e...
Sta in cervellu chi ccà dunanu la corda...
Vi avertu chi ccà prima dunanu la corda...
Fu cuntu chi vinisti ora.
Innocens noli te culpare; Si culpasti, noli te excusare; Verum detege, et in D.no Confide.
Fari asino. Mors, ubi est victoria tua?

Innocente non accusarti; se ti accusi, non giustificarti; rivela la verità, e non confidare nel Signore.(Graffito scoperto da Giuseppe Pitré in una delle celle di Palazzo Chiaramonte-Steri, sede dell'Inquisizione di Palermo, e riportato nell'incipit dell'opera)

In “Morte dell'inquisitore” Leonardo Sciascia affronta il tema della santa inquisizione in Sicilia, nel XVII secolo quando era sotto il dominio della cattolicissima Spagna: per questo lavoro ha consultato gli archivi del Sant'Uffizio (gli atti del Sant’Uffizio siciliano vennero fatti divorare dalle fiamme dal marchese Domenico Caracciolo, viceré di Sicilia, il 27 giugno 1783) ricostruendo una storia lunga secoliche, dal 1487 al 1782, portò sul rogo ben 234 persone, senza contare i condannati a pene minori, gli inquisiti e tutti coloro che, per i motivi più disparati, avevano avuto a che fare con gli inquisitori cristiani.

Sciascia parte da un episodio storico: la morte dell'inquisitore Giovanni Lopez de Cisneros, ucciso in cella dal frate Diego la Matina, racalmutese anche lui, mentre era ai ferri, nelle celle dell'inquisizione per le sue idee, eretiche.
L'episodio da il la per raccontare cosa è stata l'inquisizione in Sicilia, “un'offesa alla ragione umana e al diritto”, per raccontare la storia di questo frate entrato, dopo la sua morte, nelle leggende siciliane diventando una sorta di Robin Hood, come tanti altri briganti che rubavano ai ricchi per un desiderio di giustizia:
Il fatto è che l'uccisione dell'inquisitore e l'identità dell'uccisore erano ormai entrati in una leggenda quasi clandestina: con quelle varianti, quegli stravolgimenti, quelle dispersioni di cui sono oggetto, nel trascorrere nel tempo, gli avvenimenti eccezionali. Nella fantasia e nel sentimento del popolo, fra Diego era diventato un brigante: calato nella serie che da secoli dura ininterrotta, fino a Salvatore Giuliano, uno di quegli uomini pacifici cui l'onore familiare o il bisogno arma improvvisamente la mano, e si levano alla vendetta”.

La Matina, agostiniano aveva avuto a che fare con l’inquisizione siciliana in diversi momenti della sua vita: arrestato la prima volta nel 1644, poi nel 1645, poi nel 1646. Dopo pronuncia di abiura fu liberato ma tornò in galera nel 1648 per restarci.

Giustizia, intesa come il desiderio di un mondo più giusto: forse proprio questa
La colpa più grave che costò a frà Diego La Matina i tanti processi, nasceva secondo Sciascia, da questa sua idea di giustizia, intesa come il desiderio di un mondo più giusto.
Questo faceva paura della sua parola, il suo “tenace concetto” che si riassume nell'idea di un Dio ingiusto, ma dove l'accusa non è rivolta al Dio, ma è “ rivolta contro l’ingiustizia sociale, contro l’iniquità, contro l’usurpazione dei beni e dei diritti, egli sia pervenuto, nel momento in cui vedeva irrimediabile e senza speranza la propria sconfitta, e identificando il proprio destino con il destino dell’uomo, la propria tragedia con la tragedia dell’esistenza, ad accusare Dio. Non a negarlo, ma ad accusarlo”.

Non era un uomo rozzo il frate, la sua eresia non era quella dell'ignorate:
disputava coi primi teologi di Palermo; per mesi, per anni, tra le blandizie e sotto la tortura, respinse le loro persuasioni, rispose con le sue alle loro ragioni. E nelle ultime ore della sua vita ne straccò addirittura dieci: dieci dotti teologi, ristorati di tempo in tempo dalla cucina e dalla cantina dell'alcaide, furono straccati da un uomo il cui corpo e la cui mente avevano subìto per quattordici anni durissime e atroci prove; da un uomo che da mesi, e ancora in quel mo-mento, e fino alla morte per fuoco che tra qualche ora avrebbe avuto, stava legato con ceppi di ferro ad una forte sedia di castagnolo”.

Il suo rogo considerato dagli inquisitori “spettacolo generale della fede” avvenne nel 17 marzo 1658, al termine di un processo che concludeva anni di prigionia e di tortura. Dopo la notte passata a sfidare i nove (o dieci) teologi che si alternarono attorno a lui per stroncarne la ragione.
Non nasconde Sciascia la sua ammirazione nei confronti di questo frate: non un eretico dunque “.. noi abbiamo scritto queste pagine per un diverso giudizio sul nostro concittadino: che era un uomo, che tenne alta la dignità dell'uomo”.

L'inquisizione ebbe termine nel 23 marzo del 1782, per mano dell'illuminato vicerè Caracciolo e l'anno successivo, nel giugno del 1783 a finire sul rogo furono gli archivi stessi del Santo Uffizio (solo quelli delle cause di fede):
.. insieme a tutte le denunzie, i processi, i libri, le scritture dell'archivio propriamente inquisitoriale, cioè delle cosiddette cause di fede (mentre un secondo archivio, delle cause forensi, di materia civile o comunque non attinenti alla fede, veniva salvato nell'interesse del re). La distruzione dell'archivio, attesta un aristocratico cronista, incontrò il comune applauso, stante ché se tali memo- rie, che Dio liberi, fosser per avventura venute fuori, sarebbe stato lo stesso che macchiare di nere note molte e molte famiglie di Palermo e del regno tutto, cosi del rango de' nobili, che delle oneste e civili. E pare evidente che il cronista si preoccupasse più per i nomi dei denunzianti, che potevano venir fuori da quelle carte, che per quelli degli inquisiti: poiché il santo tribunale doveva aver avuto una così vasta rete di spie (tra i nobili, tra i civili, tra gli onesti) da fare impallidire al confronto quella dell'Ovra.”

Dunque, il sospetto è che più che a difendere questioni di fede, la Santa Inquisizione fu piuttosto uno strumento politico, per bloccare l'emancipazione intellettuale dell'isola, gli spiriti liberi, laici: il Sant'Uffizio rappresentava “l'inflessibile ferocia di una fede che proclamava di ispirarsi alla carità, alla pietà, all'amore”.
E' un tema, quello dell'inquisizione, che ha molto interessato Sciascia, tanto che nella prefazione del libro scrive che questo “è un libro non finito, che non finirò mai, che sono sempre tentato di riscrivere e che non riscrivo aspettando di scoprire ancora qualcosa”.
Perché l'inquisizione non è finita col rogo del 1783: ancora oggi (dove l'oggi di Sciascia era la fine degli anni '60) “appena si dà di tocco all’Inquisizione, molti galantuomini si sentono chiamare per nome, cognome e numero di tessera del partito cui sono iscritti”.

Parole quanto mai attuali anche oggi, dove viviamo la politica come un qualcosa di dogmatico o, peggio ancora, da tifo da stadio.

La scheda del libro sul sito di Adelphi

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