08 marzo 2017

Chi sono i populisti - il saggio del politologo Jan-Werner Müller (Cos’è il populismo UBE)

Da dove nasce l'onda populista che ha invaso l'Europa e l'America?
E' veramente un fenomeno ineluttabile, che non possiamo evitare (come ci raccontano le Le Pen e i Salvini)?
E poi, chi sono i populisti? Esiste una definizione comune in grado di descriverli e che ci aiuti meglio a comprendere il loro fenomeno, prima che sia troppo tardi?
A queste domande cerca di ripondere il politologo Jan-Werner Müller col suo ilbro "Cos’è il populismo (Ube, 2017)".
Di seguito una anticipazione del saggio uscita sul Fatto Quotidiano del 6 marzo scorso e l'intervista all'autore sul sito de Linkiesta.
Buona lettura, che sia utile a comprenderne le cause e i rischi per le democrazie: fascino a parte, tutti questi leader hanno qualcosa in comune, non amano troppo le regole della democrazia, i corpi intermedi, che ci sia qualcuno che li controlli.


Il populista è solo un politico di successo che non ci piace?Esce in Italia il saggio del politologo Jan-Werner Müller che ha fatto molto discutere negli Usa: bisogna distinguere i leader che vogliono solo piacere “alla gente” da chi ritiene di essere il popolo e nega ogni opposizionedi Jan-Werner Müller  
Nessuna campagna elettorale negli Stati Uniti ha mai visto così tanti riferimenti al “populismo” come quella che si è svolta nel 2015-2016. Sia Donald Trump sia Bernie Sanders sono stati etichettati come “populisti”. Il termine è utilizzato abitualmente come sinonimo di “anti establishment”; i contenuti sembrano essere irrilevanti rispetto ai comportamenti. Il termine è associato innanzitutto a stati d’animo ed emozioni: i populisti sono “arrabbiati”; i loro elettori sono “frustrati” o nutrono “risentimento”. Marine Le Pen e Geert Wilders, per esempio, sono comunemente definiti populisti. Entrambi sono chiaramente di destra, però, come per il fenomeno Sanders, anche i ribelli di sinistra sono etichettati come populisti: c’è Syriza in Grecia e Podemos in Spagna. Entrambi ritengono fondamentale l’ispirazione alla “onda rosa” in America Latina: il successo di leader populisti come Rafael Correa, Evo Morales e Hugo Chávez. Ma che cosa hanno in comune tutti questi politici?
Ogni politico desidera piacere al “popolo”, tutti vogliono raccontare una storia che possa essere compresa da quanti più cittadini possibile, tutti vogliono essere sensibili al modo di pensare della “gente comune”. Un populista potrebbe essere semplicemente un politico di successo che non ci piace? O invece il populismo potrebbe essere “la voce autentica della democrazia”, come sosteneva Christopher Lasch? 
Quale tipo di attore politico può essere qualificato come populista? È condizione necessaria ma non sufficiente essere critici nei confronti delle élite. Altrimenti, chiunque attacchi lo status quo sarebbe per definizione un populista. Oltre a essere antielitari, i populisti sono spesso antipluralisti. Sostengono di essere gli unici a rappresentare il popolo. Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, in segno di spregio verso i numerosi connazionali che lo osteggiavano, ha dichiarato: “Noi siamo il popolo. Voi chi siete?”. La rivendicazione della rappresentanza esclusiva non è empirica; è sempre chiaramente morale. Quando sono in lizza per una carica, i populisti ritraggono i concorrenti politici come parte dell’élite immorale e corrotta, quando salgono al potere si rifiutano di riconoscere qualsiasi opposizione come legittima. La logica populista prevede inoltre che chiunque non sostenga i populisti non possa essere considerato a buon titolo come facente parte del popolo, sempre definito come virtuoso e moralmente puro. I populisti non affermano “Siamo il 99 per cento”, sottintendono “Siamo il 100 per cento”. 
L’idea del popolo unico, omogeneo, autentico è una fantasia. Come ha sostenuto il filosofo Jürgen Habermas, “il popolo” può esistere solo nella sua pluralità. E si tratta di una pericolosa fantasia, perché i populisti non solo amano i conflitti e incoraggiano la polarizzazione, ma trattano i loro oppositori politici come “nemici del popolo”. Questo non vuol dire che tutti i populisti manderanno i loro nemici in un gulag o erigeranno mura lungo i confini nazionali, ma neppure che si limitino a un’innocua retorica da campagna elettorale.
I populisti governano da populisti. Un’amministrazione populista presenta tre caratteristiche: il tentativo di appropriarsi dell’apparato statale, la corruzione e il “clientelismo di massa” e gli sforzi sistematici per reprimere la società civile. Anche molti dittatori si comportano in modo analogo. La differenza è che i populisti giustificano la propria condotta sostenendo di essere gli unici a rappresentare il popolo. 
Oltre un quarto di secolo fa, un funzionario praticamente sconosciuto del Dipartimento di Stato americano pubblicò un famigerato saggio largamente frainteso. L’autore era Francis Fukuyama e il titolo era La fine della storia. Da tempo, si tende ad affermare pigramente la propria raffinatezza intellettuale sostenendo con scherno che la storia non è terminata con la conclusione della Guerra Fredda. Ma Fukuyama non aveva previsto la fine di ogni conflitto. Aveva scommesso che non ci sarebbero stati più oppositori alla democrazia liberale a livello di idee. Si sbagliava veramente? 
Il radicalismo islamico non rappresenta una seria minaccia ideologica per il liberalismo. Il “modello Cina» di capitalismo di Stato ispira qualcuno come un nuovo modello di meritocrazia e forse, su tutti, chi ritiene di avere i meriti maggiori (gli imprenditori della Silicon Valley) Eppure la “democrazia” resta il premio politico più ambito, e i governi autoritari sborsano enormi somme di denaro a esperti di relazioni pubbliche per essere riconosciuti dalle organizzazioni internazionali e dalle élite occidentali come democrazie. Ma non va tutto bene per la democrazia. Oggi deve affrontare un pericolo diverso da qualche ideologia generica che nega sistematicamente i principi democratici. 
La minaccia è il populismo, una forma svilita di democrazia che promette di tener fede ai massimi ideali democratici (“Potere al popolo!”). Il pericolo viene dal mondo democratico e gli attori politici che presentano la minaccia ne usano il linguaggio. Il risultato finale è una forma di politica palesemente antidemocratica che dovrebbe preoccuparci tutti, dimostrando la necessità di stabilire con precisione dove finisce la democrazia e dove comincia il pericolo populista.
Geert Wilders, left, Frauke Petry, Harald Vilimsky, Marine Le Pen and Matteo Salvini alla conferenza di Coblenza

L'intervista su Linkiesta
La verità, vi prego, sul populismo. Non ce ne voglia Auden, ma questo è quel che van cercando analisti, commentatori, sondaggisti e politici, da qualche anno a questa parte. La causa primigenia, il filo rosso che li unisce, o ancora meglio le armi con cui combattere quella che - dipende come la pensiate - è alternativamente rappresentata come la malattia delle democrazie occidentali, o la sua ultima e legittima forma. Jan-Werner Muller, politologo tedesco che insegna a Princeton, negli Stati Uniti, autore del saggio “Cos’è il populismo” (Ube, 2017) che secondo il Washington Post è “l’opera più utile per capire il successo di Trump”, appartiene alla prima fazione: «Il populismo è un pericolo per la democrazia - spiega a Linkiesta -, ma non dobbiamo commettere due errori mortali: escluderlo dal gioco democratico, o legittimarlo assumendone, anche se edulcorate, le posizioni». 
Cominciamo bene…Intendiamoci subito, però. Non è che chiunque critichi il governo, o le élite, o l’establishment è necessariamente populista. Un buon cittadino è fisiologicamente critico nei confronti di chi comanda. È il sale della democrazia.
Cosa distingue, allora, un movimento di critica radicale dello status quo da un movimento populista?Il modo. I populisti rifiutano il pluralismo, pensano di essere i soli a rappresentare il popolo, la maggioranza silenziosa. È la pretesa di avere il monopolio sul popolo a creare il populista. Quando Trump dice che ha ridato la Casa Bianca agli americani dice questo. Che chi l’ha preceduto, a differenza sua, non rappresentava il popolo. È una mistificazione, ovviamente, ma la gente ci crede.
Come mai? È dfficile trovare una causa sola. Il declino economico è uno dei motivi della nascita del populismo, cero. Non è sempre vero che in ogni luogo in cui le cose vanno male in economia, arriva il populismo. Irlanda e Portogallo sono la prova che non sempre le crisi portano il populismo, anche dove le élite hanno enormi responsabilità.
Quindi?Quindi le cause che contribuiscono all’emergere del populismo non sono mai le stesse. Le teorie non spiegano universalmente come emerge il populismo e perché funziona in uno specifico contesto. Però…
Però?Però, ad esempio, il populismo emerge dove c’è un conflitto. Oggi è molto forte quello tra chiede più apertura e chi vuole una società più chiusa, ad esempio. Un conflitto reale quanto quello tra capitale e lavoro, o tra città e campagna.
Il populista sta con chi vuole una società più chiusa, immagino…Non sempre accade. È un conflitto che rende le cose più facili per loro, ma sovente i populisti dicono cose diverse in posti diversi a interlocutori diversi. Non è un caso che quasi ciascuno di loro parla di superare destra o sinistra. Trump in questo è stato un maestro, ma anche il Movimento Cinque Stelle in Italia incarna questo tipo di contraddizione. È un movimento verticistico, nelle mani di una persona sola, ma è favorevole alla democrazia diretta…
Ecco, a proposito: lei dice che i populisti rifiutano il pluralismo. Però una delle armi populiste per eccellenza è il referendum, la democrazia diretta…È importante non credere alle favole: i populisti non sono difensori della democrazia diretta. Per i populisti, il referendum - uno strumento bellissimo, in se - non è che il mezzo migliore per creare una costruzione simbolica del popolo. Quando suggeriscono il referendum gli interessa relativamente della questione politica che il referendum sottende. Gli serve per dimostrare che il popolo è in grado di fare una scelta coerente con le loro idee e contro l’establishment. Basti vedere quel che ha fatto Orbàn.
Cioè?Ha promosso un referendum per andare contro le regole europee sulla redistribuzione pro quota dei profughi. Ha speso da solo, per la campagna elettorale, più di quanto hanno speso entrambi gli schieramenti nel referendum sulla Brexit, nel Regno Unito. Risultato? Non ha raggiunto il quorum. A quel punto, gli è bastato dire che il 98% delle persone che avevano votato la pensavano come lui ed è andato comunque dritto per la sua strada. In fondo, era a quello che serviva, il referendum.
L’Unione Europea, perlomeno qui da noi, è il bersaglio preferito dei populisti…È fisiologico che sia così, sono due facce della stessa medaglia. È l’approccio tecnocratico ad avere prodotto il populismo in Europa.
Si spieghi meglio…I tecnocrati dicono che c’è un’unica soluzione razionale a un problema, che al popolo piaccia o meno. Il populismo, che rifiuta l’opinione dei cosiddetti “esperti” offre un’alternativa uguale e contraria. Tecnocrazia e populismo hanno in comune il rifiuto della mediazione. E quindi, della democrazia.
La battaglia contro la tecnocrazia europea l’ha fatta propria anche Matteo Renzi, ora. Populista pure lui?No, assolutamente, non bisogna mettere tutti nello stesso calderone.Tutti i politici vogliono essere popolari, non tutti sono populisti. È l’anti-pluralismo che connota il populismo. Ed è quello che è pericoloso per la democrazia. E il problema emerge quando quel sentimento va al potere, soprattutto se ci sono istituzioni deboli.
Eccoci arrivati al punto: come si fa a evitare che il populismo vada al potere?È molto difficile avere a che fare con il populismo. Semplificano tutto ed è difficilissimo contrapporsi a loro.
C’è chi dice che bisogna far finta che i populisti non esistano, che si debba escluderli dal processo democratico…L’esclusione politica è un arma che si ritorce contro le élite. Aiuta il populismo a creare una narrazione ancora più credibile per i propri supporter.
Bisogna parlare coi populisti, quindi?Si, ma bisogna stare attenti a non parlare “come” i populisti. Non bisogna entrare nel loro campo da gioco, può essere letale. Come abbiamo visto, non funziona nemmeno a livello elettorale, e Sarkozy che perde le primarie repubblicane nonostante dica le stesse cose della Le Pen ne è la prova. La stessa cosa sta avvenendo in Olanda: il primo ministro Mark Rutte non vuole collaborare con Geert Wilders, ma dice frasi che adottano il suo modo di ragionare e lo legittimano.
Tutto un problema di comunicazione, quindi?Io credo che ci siano tendenze sbagliate a pensare sia tutta una questione di narrazione, di comunicazione errata. La comunicazione conta, in politica, ma c’è molto di sostanziale. Io non sono un policy maker e non so cosa si può fare per aumentare l’occupazione in Italia, ma se si risolve un problema è più facile combattere il populismo.
Facile a dirsi……difficile a farsi, certo. Però battere il populismo non è impossibile. A dicembre si pensava che in Austria vincesse Hofer conto Van der Bellen, ma non è successo. I politici possono fare tutto, ma servono i cittadini. Così come ai populisti servono le élite, del resto.
In che senso?Nel senso che è il partito conservatore che sta gestendo la Brexit. E che Donald Trump, sino a prova contraria, è il candidato dei repubblicani, establishment puro, lo stesso che ha messo ai vertici della sua amministrazione. Può dire quel che vuole, ma anche Marine Le Pen può vincere solo se si salderà con un pezzo di élite francesi.
E quando accade che si fa?La resilienza delle istituzioni e la mobilitazione democratica sono i migliori antidoti al populismo. In quel caso, gli unici.


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