14 maggio 2017

Il protagonismo di certi magistrati – da Falcone ad oggi

Magistrati che usano le inchieste di cui sono titolari per acquisire notorietà
Magistrati che fanno un uso mediatico delle inchieste, senza mai arrivare a risultati

Ad ogni inchiesta che tocca il potente di turno, si rispolverano queste espressioni usate per denigrare, ridicolizzare il pm (o il giudice) colpevole di voler disturbare il manovratore.
Bancopoli e la giudice Clementina Forleo.
Le inchieste Poseidone e Why Not e Luigi De Magistris a Reggio Calabria.
Ora il caso Consip e il procuratore Woodcock.

Ma la formula del magistrato mediatico, del giudice protagonista è stata usata anche per attaccare l'immagine di magistrati più famosi, quelli che ogni anno ricordiamo con un profluvio di retorica, vuota retorica.
Mi riferisco a Paolo Borsellino e Giovanni Falcone: da morti vengono ricordati come solerti difensori dello Stato, giudici che lavoravano nel silenzio, eroi morti per mano della mafia. Non è così: da vivi non ci sono statialtri magistrati che come loro sono stati attaccati, calunniati, vituperati e non dalla mafia.
Ad attaccate Falcone e Borsellino, negli anni del pool antimafia, e successivamente quando fu smantellato per “normalizzare” la procura di Palermo, sono stati gli stessi magistrati, i suoi stessi colleghi, i membri del CSM.

«Il più capace e famoso magistrato italiano fu oggetto di torbidi giochi di potere, di strumentalizzazioni ad opera della partitocrazia, di meschini sentimenti di invidia e di gelosia (anche all’interno delle stesse istituzioni)»: sono parole della sentenza della Corte di Cassazione del 2004, sulla strage di Capaci.

E anche giornalisti che sfruttavano a loro piacere le parole di Sciascia o che avevano riscoperto un peloso garantismo nei confronti dei boss.
Lino Jannuzzi su Il Sabato (il settimanale di CL) del 20 gennaio 1987 quando parlava della moda dell'antimafia, dilettantesca pure.
Il Giornale di Indro Montanelli che aveva ospitato l'intervento della deputata Carulli Fumagalli (Maccartismo a Palermo del 19 novembre 1988) che attaccava “la gestione monopolistica da parte di alcuni magistrati [Falcone] che, facendosi scudo della propria professionalità, non consentono ad altri colleghi di guardare le carte”.

Un cronista del Giornale scriveva gli articolo direttamente nella stanza di Vincenzo Geraci , al CSM, nel Palazzo dei Marescialli.
Se ne accorse Fernanda Contri lamentandosene col vicepresidente del CSM, Cesare Mirabelli, noto per aver votato nei suoi quattro anni di permanenza nel suo incarico una sola volta, per eleggere se stesso e poi astenendosi per il resto. In quegli articoli c'era quindi “un ispiratore di parte, fazioso .. pagine di grande squallore” conclude Giuseppe Ayala nel suo libro “La guerra dei giusti”.

Sul Giornale di Sicilia invece venivano pubblicate lettere come la seguente:
Per chi suona la sirena delle scorte.Sono un'onesta cittadina che paga onestamente le tasse e lavora otto ore al giorno. Vorrei essere aiutata a risolvere il mio problema che, credo, sia quello di tutti gli abitanti della medesima via. Regolarmente tutti i giorni (non c'è sabato o domenica che tenga) , al mattino, durante l'ora di pranzo, nel primissimo pomeriggio e la sera (senza limiti d'orario) vengo letteralmente assillata da continue ed assillanti sirene di auto della polizia che scortano vari giudici ..”

E poi le lettere del corvo, l'attentato all'Addaura di cui si scrisse che era solo una messinscena, per favorire la sua nomina a procuratore aggiunto ..

A Palermo la mafia uccide due volte: prima delegittima e isola, poi fa saltare in aria”.
Non amo molto le ricorrenze celebrative, il 19 maggio o il 23 luglio: di solito sono giornate in cui il racconto si ferma all'eroe Falcone, all'eroe Borsellino, fermandosi poco oltre.
Le sconfitte, gli attacchi alle spalle che subirono da vivi, non li ricorda nessuno: troppo imbarazzo creerebbero nello Stato, scoprire come ai magistrati più bravi d'Italia nella lotta alla mafia furono sbarrate tutte le strade.
Falcone fu bocciato all'Ufficio Istruzione, per prendere il posto di Caponnetto, a capo dell'Alto Commissariato antimafia (gli fu preferito Sica, l'uomo dei fascicoli aperti e lasciati aperti), non riuscì a farsi eleggere al CSM e infine fu bocciata la sua nomina alla Super procura antimafia, la struttura da lui voluta per unificare le azioni investigative contro cosa nostra.
Borsellino fu nominato procuratore capo a Marsala, dopo il maxi, ma questa nomina in cui a prevalere era l'esperienza e non l'anzianità suscitò tante polemiche: nei magistrati perché scardinava il principio per cui bastava aspettare e la promozione arrivava per tutti, nei politici e negli osservatori attenti del fenomeno mafioso, perché all'improvviso un magistrato che si era impegnato contro i boss veniva premiato.
Borsellino, dopo la morte dell'amico Giovanni, tornò a Palermo e si mise per mettersi a disposizione dei giudici di Caltanissetta titolari su Capaci senza essere mai ascoltato. E dovette aspettare settimane prima di vedersi affidato dal procuratore capo Giammanco un filone dell'indagine: fino a quel 23 luglio.
L'ultimo sfregio a quel magistrato saltato in aria assieme alla scorta perché aveva visto la mafia (e non solo la mafia) muoversi in diretta, per la trattativa stato mafia.



Ben vengano libri come quello appena uscito per Einaudi del giornalista Giovanni Bianconi: “L'assedio,troppi nemici per Giovanni Falcone”.

Nel capitolo “Un giudice «protagonista»” Bianconi racconta tutte le sconfitte in magistratura subite da Falcone, a cominciare dalla mancata nomina (da parte del CSM) a capo dell'Ufficio Istruzione, dopo Caponnetto:
Nel dibattito si parla dell'alternativa fra il candidato più adatto a quella poltrona per l'esperienza maturata nello specifico settore di cui si sarebbe occupato, e rispetto della regola che da sempre assicurava gli avanzamenti di carriera delle toghe «l'anzianità senza demerito». Ma si affrontò anche un'altra questione che stava prendendo piede e avrebbe accompagnato Giovanni Falcone per il resto della vita: quella del giudice famoso del magistrato simbolo di qualcosa, che appare in tv e sui giornali più degli altri. In Italia e all'estero.
Umberto Marconi, relatore della pratica, pronunciò queste frasi: «Accentrare tutto in figure emblematiche, pur nobilissime è di certo forviante pericoloso. Ciò è titolo per alimentare un distorto protagonismo giudiziario, incentivare una non genuina gara per incarichi di ribalta, degradare un così ampio impegno in una cultura da personaggio, pericolosa tentazione in chi si sia cinto su ben altre premesse a tanto encomiabile servizio.
Si trasmoda nel mito, si postula una infungibilità che non risponde al reale, mortifica l'ordine giudiziario nel suo complesso».Con il rischio di provocare «concreta disincentivazione nei colleghi che umilmente silenziosamente, ma con notevole impegno, abdicazione coraggio, si accaniscono nel loro lavoro».
Bisognava nominare Meli [per anzianità di servizio] anziché Falcone, insomma, per dare il buon esempio: meglio una toga normale che lavora senza troppa apparire, rispetto a una star con i riflettori puntati addosso. Come se il problema fossero i magistrati che cercano notorietà con i processi alla mafia, e non la mafia diventata famosa a forza di omicidi e stragi, a cui finalmente si era cominciato a dare qualche risposta.[L'assedio, pagine 39-40, Giovanni Bianconi Einaudi editore]

Una lettura interessante per quanti vogliano capire cosa sia stata, veramente, la lotta alla mafia negli anni 80-90. Quanti sacrifici e bocconi amari abbiano dovuto ingoiare Falcone e Borsellino (e i loro collaboratori).

E per capire chi siano stati i giuda che li hanno traditi (per favorire cosa nostra e i suoi interessi) nel mondo delle toghe e anche fuori.

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