19 luglio 2016

Quel fresco profumo di libertà

Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Antonino Caponnetto
La lotta alla mafia, il primo problema da risolvere nella nostra terra bellissima e disgraziata, non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale che coinvolgesse tutti e specialmente le giovani generazioni, le più adatte a sentire subito la bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell'indifferenza, della contiguità e quindi della complicità.[Paolo Borsellino, discorso in commemorazione dell'amico Giovanni Falcone]

Se non fossimo presi dalla cronaca del presente che ci parla di stragi, golpe, immigrati, terrorismo, forse avremmo tempo per ricordare l'importate stagione antimafia avvenuta a Palermo negli anni del Pool di Chinnici prima e di Caponnetto poi.
Anni in cui si istruirono processi contro mafiosi, contro politici in contiguità con la mafia (per quella convergenza di interessi), contro professionisti che si erano messi a disposizione di mafia Spa.
Una stagione nella quale, dopo il golpe dei Corleonesi e forse proprio per limitarne i poteri, lo Stato fece veramente la guerra alla mafia per vincerla.
Una guerra pagata a caro prezzo: sono anni in cui furono uccisi prefetti come Dalla Chiesa, presidenti di Regione come Mattarella, uomini delle forze dell'ordine come Ninni Cassarà e Beppe Montana, magistrati come Cesare Terranova e Rocco Chinnici, politici come Pio La Torre.
Oltre al sangue delle cosche perdenti, alle persone uccise perché nel posto sbagliato nel momento sbagliato.

Grazie al pentimento del boss dei due mondi, Tommaso Buscetta, i giudici del pool, tra cui Falcone e Borsellino, riuscirono a comprendere la natura della mafia, verticistica e unitaria, capirne le logiche e i ragionamenti. Mettere assieme omicidi ed episodi di cronaca in un'unica cornice.
Fu il maxi processo, iniziato nel 1986 e arrivato a sentenza definitiva, con la conferma degli ergastoli ai mafiosi come Pippo Calò e Michele Greco, nel 1992.

Era la stagione nella quale si era dimostrato che la mafia poteva essere sconfitta, che i mammasantissima potevano finire dietro le sbarre e perdere prestigio e potere. Che i politici collusi finivano anche loro in manette. Certo, c'erano i giornali garantisti coi potenti che si lamentavano delle sirene della scorta dei magistrati, la polemica sui professionisti dell'antimafia per un errata interpretazione dei fatti da parte di un intellettuale fine come Sciascia (che ebbe poi modo di spiegarsi con Borsellino).
Si poteva pensare che si sarebbe messa la parola fine ai Riina, ai Liggio, ai Provenzano ma anche ai Sindona, ai Salvo Lima e Andreotti. Mettere fine a quel compromesso tra stato e antistato nato con la strage di Portella della Ginestra e con la morte di Salvatore Giuliano, coi segreti e i ricatti che portarono Cosa nostra al tavolo del potere politico.

Ma non era tutto lo Stato a voler combattere questa guerra (e volerla vincere), così come non era tutta la mafia a voler poi fare la guerra con le bombe allo Stato.
Borsellino e Falcone oggi sono diventate icone dell'antimafia ma ci si dimentica di tutte lecalunnie, degli attacchi, dei bocconi amari che dovettero sopportare da vivi.
La carriera di Falcone in magistratura fu bocciata, prima come capo dell'ufficio istruzione e poi nella procura di Palermo.
Borsellino si trasferì a Palermo e dovette rispondere di fronte al CSM per la sua intervista a l'Unità in cui criticava lo smantellamento del pool antimafia (dopo l'addio di Caponnetto).
Si arrivò, nel 1992, con la crisi dei partiti, col crollo del muro, con la fine di un'epoca alle condanne del mazi processo e con la risposta stragistica della mafia.
Con le bombe contro Giovanni Falcone e Paolo Borsellino: i due magistrati di punta nella lotta alla mafia venivano spazzati via, uccisi assieme agli agenti delle scorte.
Le bombe per piegare la volontà dello stato, le bombe come strumento per convincere lo Stato a mollare la presa coi processi, coi pentiti, col rinnovamento della classe politica, con le dure leggi antimafia.
Gli anni tra il 1992-1994 sono ancora tutti da decifrare e in cui compaiono, leggendo tra le righe i fatti di cronaca, tutti gli spettri del nostro passato.
Servizi deviati, Gladio, massoneria, la mafia dei salotti (o borghesia mafiosa).

Sono gli anni di depistaggi per nascondere la pista che dalla mafia avrebbe portato alla politica, al nuovo miracolo italiano, al 61 a zero, al partito che garantiva nuovamente gli interessi per tutti, dopo la breve stagioni delle leghe meridionali. 
Anni di agende rosse (di Borsellino) che scompaiono e della mafia stessa che scompare: "calati junco chi passa la china".

Sono gli anni della trattativa, per molti presunta per l'ostinazione nel non voler vedere l'ovvio.
Da una parte gli arresti eccellenti dell'ala militare della mafia.
Dall'altra i provvedimenti legislativi che piano piano sgretolavano l'antimafia. A cominciare dalla legge sui pentiti.

C'è chi sostiene che oggi la mafia sia meno forte rispetto agli anni di Falcone e Borsellino. Che lo Stato abbia vinto la sua battaglia.
Che i processi che oggi vedono alla sbarra i boss come Riina (e non Provenzano, lasciato morire in carcere) e uomini dello Stato come Mancino e Contrada siano solo processi politici, inutili, una perdita di tempo.

Ma oggi la mafia è semplicemente diversa da quella dei corleonesi. È la mafia che si insinua nell'antimafia, nell'economia pulita, nei grandi lavori come Expo.
È la mafia che concorre ad eleggere sindaci, consiglieri.
La mafia degli appalti e dei servizi, specie qui al nord dove la sua presenza era fino all'altro ieri negata.
E tutto questo è successo perché, come diceva Borsellino nella cerimonia in memoria dell'amico Falcone, si è pensato di portare avanti la lotta alla mafia come se fosse solo una questione di magistrati e forze dell'ordine.
Quando invece si doveva puntare ad un completo rinnovamento della società, puntando sulle giovani generazioni “ le più adatte a sentire subito la bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell'indifferenza, della contiguità e quindi della complicità”.

Oggi sentiremo nuovamente le frasi in memoria di Borsellino (e Falcone) da parte di una classe politica in parte complice di questa mancata vittoria contro la mafia, complice del mancato rinnovamento, indifferente al profumo di libertà e invece dedita al compromesso.
Un compromesso che è una pietra sopra lo sviluppo e la crescita non solo del sud del paese.
Ricordiamocelo, il sacrificio di queste persone che non avrebbero voluto essere eroi ma solo fare il loro dovere, fino in fondo.

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